Borgo Marano
Il castello di Marano appare per la prima volta in un diploma di Ottone II di Sassonia dell’anno 996 ed è quindi, con Santa Vittoria in Matenano, l’unico esempio di incastellamento avvenuto nel corso del X secolo testimoniato nelle fonti scritte.
CASTRUM MARANI
Il Castello di Marano riveste un’importanza tutta particolare tra gli insediamenti castrensi sorti tra il X e il XII secolo nella Marca a sud del Chienti, perché sorto nella fascia periferica dell’antica città-santuario piceno-romana di Cupra Maritima, sulla sommità della falesia allora a picco sull’Adriatico ad 1 km circa a sud dell’antica civitas, su una penisola di confluenza compresa tra il mare, il fosso di Casebbe, detto oggi di Sant’Egidio, e quello di Marano. L’attuale territorio del Comune di Cupra Marittima si è formato dall’unione delle pertinentiae della curtis farfense di Sant’Angelo di Villa Màina e di quelle dei quattro insediamenti di Supportica, ad ovest, di Boccabianca a nord del torrente Menocchia, di Englese, a nord-ovest a ridosso dell’antica città romana, e di Sant’Andrea a Mare a sud, subito al di là del fosso di Marano.
Il Castrum di Marano sorse nel corso del X secolo dall’incastellamento di fondi impegnati nella coltivazione e nell’amministrazione delle limitrofe curtes altomedievali (curtis Sancti Angeli de Villa Màina, curtis Sancti Gregorii, curtis Sancti Silvestri) e soprattutto di quelli provenienti dal Fundus Marianus, da cui l’insediamento castrense trasse la propria denominazione.
Il castello di Marano appare per la prima volta in un diploma di Ottone II di Sassonia dell’anno 996 ed è quindi, con Santa Vittoria in Matenano, l’unico esempio di incastellamento avvenuto nel corso del X secolo testimoniato nelle fonti scritte. Dai documenti si evince anche che il Castrum era sorto all’interno dell’antico fundus Marianus che si estendeva tra il basso corso del Menocchia, il mare e il Fosso di Sant’Egidio, dove si sviluppavano l’antica città di Cupra Maritima e il suo immediato suburbio, costituito per lo più da villae di diporto e dove, tra il VI e l’VIII secolo, era sorta la chiesa plebana di San Basso.
IL GIARDINO GRISOSTOMI, GLI ARANCETI E LA MACCHIA MEDITERRANEA DI MARANO
La Villa Grisostomi e il relativo giardino si localizzano nella parte alta dell’insediamento medievale di Marano, in posizione dominante sull’antica falesia marina costituita da sabbie cementate sovrastate da conglomerati calcarei. La parte esposta a sud degrada, prima dolcemente, poi in maniera ripida con alte pareti strapiombanti.
L’ambiente naturale presenta caratteri di grande interesse, non solo per gli aspetti geologici e geomorfologici, ma soprattutto, botanici. Proprio su queste rupi assolate si localizzano infatti alcune specie mediterranee rare nell’ambito della regione marchigiana. Tra queste il lentisco e il mirto, due arbusti in passato fortemente sfruttati dai conciatori per l’alto contenuto di tannino, le interessantissime popolazioni di erica multiflora (Erica multiflora), le uniche in territorio marchigiano e, alla base delle rupi, le stazioni più settentrionali - sul versante Adriatico - di liquirizia che non si spinge più a nord di Cupra. Sui ripidi versanti, inoltre, si sono rinselvatichite specie coltivate nel periodo medievale e oggi dimenticate come l’erba medica legnosa (Medicago arborea), il malvone (Lavatera arborea) e il macerone (Smirnium olusatrum), localmente noto come sandrù. A queste si aggiungono specie particolari legate alle attività ludiche della villa, tra le quali il Buplerum fruticosum, piantato a ridosso dell’appostamento di caccia per attrarre gli uccelli. Intorno, le pinete a pino d’Aleppo (Pinus halepensis) diffuse nel litorale piceno nel corso del XIX secolo quando i primi pini furono introdotti dalle storiche pinete D’Avalos a Pescara mentre sulle aree più impervie si è spontaneizzata l’agave, pianta originaria del continente americano.
Proprio sul versante esposto a mezzogiorno, si posizionano le coltivazioni di agrumi, i “giardini di agrumi” (li ciardì nel dialetto locale), come un tempo venivano individuate queste colture di grande interesse economico.
La localizzazione degli agrumeti è condizionata dall’esposizione meridionale, a riparo dai freddi venti settentrionali, e dalla disponibilità di acqua poiché si tratta di una coltura che necessita di irrigazione. Sull’antica falesia, l’acqua veniva captata attraverso la realizzazione di lunghe e complesse gallerie che andavano a intercettare la preziosa falda.
Nella costa marchigiana la coltivazione degli agrumi è documentata fin dal XIV secolo e nel corso del Cinquecento ebbe una forte espansione quando le classi aristocratiche e borghesi investirono i loro capitali nella produzione agrumicola destinata essenzialmente all’esportazione verso Venezia, le altre regioni del nord Italia e perfino l’opposta sponda adriatica. La fascia interessata andava da San Benedetto del Tronto fino a Porto San Giorgio ma il cuore agrumicolo piceno era costituito proprio dall’area Grottammare-Cupra Marittima.
L’impianto di un giardino di agrumi richiedeva l’investimento di grossi capitali indispensabili per la costruzione delle strutture murarie, la realizzazione di canali e vasche di raccolta delle acque e, dove necessario, per le opere di terrazzamento del terreno. I giardini erano protetti da alte cortine in muratura per preservare le piante dai rigori invernali e scongiurare i furti. A ridosso delle mura venivano piantati limoni e cedri, le specie meno resistenti al freddo. D’inverno, venivano protetti grazie a coperture mobili realizzate utilizzando proprio le murature perimetrali che presentavano arcate e nicchie regolari costruite appositamente. Al centro del giardino venivano impiantati gli aranci, innestati sull’arancio creso, nome con il quale ancora oggi viene chiamato l’arancio amaro.
In prossimità della Villa Grisostomi si localizza uno degli ultimi giardini d’aranci della costa picena, un vero e proprio luogo delle delizie, dove si integravano e coniugavano l’attività produttiva con quella ludica e ricreativa. Oltre agli antichi aranci, specialmente amari, nel giardino sono ancora visibili le vasche per la raccolta e l’accumulo dell’acqua, le nicchie laterali lungo le mura perimetrali e le altre strutture delle complesse coperture invernali.
CHIESA DI SANTA MARIA IN CASTELLO DI VILLA PACCARONI OGGI GRISOSTOMI
Una delle vestigia più antiche di Cupra Marittima è la Chiesa di Santa Maria in Castello, che compare per la prima volta in un documento del 21 gennaio 1225 e successivamente in un ulteriore documento del 1239 dove viene ricordata con il nome di Santa Maria Mariani. Scritti posteriori la identificano anche come chiesa matrice di Castel Marano; in effetti Santa Maria in Castello fu la prima Chiesa parrocchiale di questo borgo ma la relativa qualifica le venne tolta a seguito della costruzione di quella di San Basso.
Nel 1330 e sul finire del sedicesimo secolo la chiesa subì profondi restauri e, nel 1641, l’allora vescovo ne ordinò la riduzione della lunghezza e a tal fine venne venduto l’orto a sud della strada che precedentemente ospitava un piccolo cimitero. Dopo la metà dell’Ottocento Santa Maria in Castello fu inglobata nella proprietà Brancadoro divenendo comunale con l’Unità d’Italia.
Rimasta in stato di abbandono per alcuni decenni, la chiesa fu acquisita e restaurata dalla famiglia Grisostomi nel 1946, come attestano la lapide in fondo alla navata e l’architrave del portale con lo stemma nobiliare dei proprietari. Gli interventi più consistenti riguardarono la ricostruzione del soffitto che venne rinnovato ripristinando le capriate come in origine e la sistemazione del pavimento, a seguito del quale vennero scoperte delle sepolture che si estendevano fino al giardino della villa. La facciata esterna venne rimaneggiata in minima parte e conserva attualmente monofore a strombo databili alla prima metà del tredicesimo secolo. L’ingresso principale, ornato da un elegante portale semigotico, si presenta decorato con motivi geometrici in cotto, mentre sotto il cornicione del tetto sono stati reintegrati una serie di archetti pensili a tutto sesto.
L’interno della chiesa conserva oggi, nella parte dell’altare maggiore, un baldacchino sostenuto da quattro colonne in cotto sormontate da tre grandi arcate polilobate a dentellatura ineguale di gusto tipicamente moresco, ricollegabili forse alla presenza saracena viva nel territorio fin dai primi anni del tredicesimo secolo. Nella lunetta sotto il baldacchino del presbiterio, è presente un affresco raffigurante la Vergine con Bambino, Santa Lucia e Santa Caterina di Alessandria databile ai primi decenni del sec. XV e attribuibile a un artista anonimo che per alcuni storici dell’arte risulterebbe seguace della scuola di Gentile da Fabriano mentre, nell’angolo sud-est della chiesa, ritroviamo affreschi di un artista anch’esso non identificato ma in stile romanico.
In passato Santa Maria è stata denominata chiesa di San Filippo in ricordo del Beato Antonio Grassi, Padre Filippino antenato della famiglia Grisostomi, effigiato sulla tela posta sopra l’altare laterale, spazio che nel sec. XV era riservato al trittico Madonna con Bambino e Santi Basso e Sebastiano di Vittore Crivelli.
L’incisione di Luigi Povelato, datata 1788, rappresenta San Basso che protegge Marano, con la pianta della località con il Borgo Marina di Marano e con un tratto di mare Adriatico e alcuni navigli dell’epoca. Questa rappresentazione coniuga sia il santo patrono di Marano prima e Cupra Marittima poi, sia il protettore dei naviganti, intesi come commercianti e pescatori. Il commercio era dato da imbarcazioni che partivano da Marano per portare olio, vino, frutta in genere ma soprattutto arance, prodotte in abbondanza in loco, cereali ed erbaggi. Di ritorno dai luoghi di destinazione della merce (Istria, Fiume, Pola, Zara, Sebenico, Spalato, Tirana) trasportavano legname, zolfi, carbone, catrame e oggetti di calafataggio.
PALAZZO BRANCADORO - SFORZA - GRISOSTOMI
Subito a oriente della Chiesa di Santa Maria in Castello sorge il palazzo, fatto costruire nel XV secolo dalla Famiglia Brancadoro, nel quartiere "Castello" che nei secoli diventò il sito di residenza preferito delle più prestigiose famiglie fermane e maranesi. Vi abitarono infatti, oltre ai Paccaroni e ai Brancadoro, i mercanti Rota, il capitano Azzolino e i Porfiri.
Secondo la tradizione popolare fu Francesco Sforza, Duca di Milano, a volerne la costruzione nel periodo in cui occupò il Piceno (1443-1451) per la riorganizzazione difensiva dei castelli di Ascoli. L'edificio fu fatto costruire da Giacomo Brancadoro, come testimoniato dallo stemma della famiglia fiancheggiato dalla scritta "IACOB(us) ---- BRA(n)CADOR(us), presente sulla mensola di un camino nella sala sud-est del primo livello, e dall’iscrizione “SVAVITER MDII”, presente sulla facciata orientale del palazzo. I Brancadoro, uno dei casati dell'oligarchia di potere fermana più facoltosi, restarono in Marano per circa tre secoli e mezzo usando frequentemente il palazzo e legando così il paese alle sorti della famiglia. Nel 1848 il conte Antonio Brancadoro vendette tutte le sue proprietà di Marano, compreso il "Palazzaccio", la "Rocca" e il sottostante terreno in contrada "San Patrizio". Nella matrice del 1855 l'area risulta, infatti, intestata a Vitale di Emidio Grisostomi di Marano, i discendenti del quale la possiedono ancora ai nostri giorni. I Grisostomi ampliarono l'antico casino di villeggiatura dei Paccaroni, verso ovest, inglobando la torre nord-est nel corpo di fabbrica.
Il palazzo è composto da due blocchi appartenenti ad epoche differenti: un edificio molto antico, databile grosso modo tra la seconda metà del secolo XIII e la prima del XIV, su cui poggia il palazzo e un blocco realizzato ex novo, tra la fine del XV secolo e l'inizio di quello successivo, che ha dato vita al primo e secondo livello e all'intera ala nord. Nel corso del secolo XVIII l'esterno dell'edificio è stato sottoposto a una completa ristrutturazione. Il ribassamento del livello della strada ha messo a nudo le fondazioni che sono costituite da conci di arenaria e di conglomerato sommariamente squadrati e legati con malta. Al di sopra corre un altro filare di conci più piccoli, sul quale si imposta il primo ricorso di blocchetti regolari. I conci, in travertino, sono finemente lavorati a martellina, a "bucciardatura". Tanto sulla sinistra che sulla destra il paramento presenta due ampie lacune tamponate a mattoni in cui, in due epoche diverse, sono state aperte due finestrelle per dar luce al locale interno. Sulla destra è murato un concio che reca su un lato un motivo a fogliette o a squame, recupero dalla Cupra di epoca romana. Le mostre delle finestre, che sembrano originarie, sono piatte e senza alcun motivo ornamentale e sono costituite da conci di travertino e di arenaria ben squadrati e levigati sulla faccia esterna. Il carattere di estrema sobrietà, linearità e imponenza, imprime all'edificio l'aspetto di natura militare, accentuato dai piombatoi dell'ultimo piano.
MUSEO ARCHEOLOGICO DEL TERRITORIO
Subito dopo il palazzo Brancadoro-Sforza-Grisostomi è ubicato uno stabile che fu anche sede comunale di Marano, quindi ospedale e, in tempi recentissimi, ospizio per poveri, fino ad essere trasformato in sede del Museo Archeologico Comunale. L'edificio si presenta quale risultato di un antico accorpamento di due case-torre; gli ambienti del piano terreno e del seminterrato sono i più notevoli dal punto di vista architettonico, in presenza di interessanti sistemi di volte e insolite mensole per l'appoggio delle travi, realizzazioni che vanno dal XIII al XVIII secolo.
Dopo i restauri del palazzo e in seguito ai numerosi ritrovamenti di superficie e alle donazioni private si realizzò, nel 1999, la prima delle tre fasi del costituendo Museo con la Sezione Romana, seguita nel 2000 dalla Sezione Picena e nel 2007 dalla Sezione Preistorica. L’importanza del Museo è dovuta in particolare alla costituzione del Laboratorio Didattico di Ecologia del Quaternario che si è assunto l’incarico attraverso pubblicazioni, conferenze, iniziative plurime, seminari di studio e visite guidate di divulgare il più possibile una materia che fino agli anni Settanta risultava pressoché sconosciuta soprattutto alle nuove generazioni.
CHIESA DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
Adiacente alla chiesa di San Rocco, venne edificata nel 1512 la chiesa della Santissima Annunziata, di proporzioni ridotte, corrispondente all’attuale presbiterio. Dieci anni dopo venne realizzata, per volere della Confraternita del Santissimo Rosario, una Pala raffigurante la Madonna e Santa Giustina con i quindici Misteri del Rosario, opera di Gianfranco Guerrieri di Fossombrone. Dal 1844 al 1846 la Chiesa fu restaurata e ampliata e, nel 1851, venne ultimata la gradinata d’ingresso e il portone in pietra, opera dello scalpellino Emidio Giovannozzi di Ascoli Piceno. Dal 1876 al 1888 la chiesa ospitò il corpo di San Basso Martire Patrono di Cupra Marittima e dal 1888 vi fu trasferita la giurisdizione della Parrocchia di Sant’Andrea. Nel 1973 la chiesa venne affidata a un gruppo di giovani perché diventasse sede permanente di un Presepe Poliscenico. Il Campanile dell’Annunziata, ricostruito nel 1917, ha forma slanciata con guglia piramidale che richiama l’architettura dei campanili tipici del tentino, le terre redente a fine Prima Guerra Mondiale. Nell’estate 2022 il campanile è stato restaurato nella struttura e nell’impianto di illuminazione.